L’arte – ma anche la scienza e la tecnica – di ideare, comporre, servire il bere miscelato. Questa è la mixology. E non si limita a ciò che succede al bancone del bar, ma è sempre più un linguaggio e un mestiere, una pluralità di tendenze e luoghi, un’esplorazione e un’educazione del palato, dei gusti, dei riti non solo del bere.
Per capire dove va la mixology basta mettersi in osservazione, con o senza un tumbler in mano, o all’ascolto del brusio delle tendenze, attenti anche a monitorare alcune parole-chiave. Attrezziamoci, un paragrafo alla volta.
La mixology va in accademia.
Capire che si è portati. Studiare, seriamente. Creare. Esercitarsi. Migliorarsi. Iniziare a guadagnare. Usare i guadagni per diventare ancora più bravi e indipendenti. Ecco il loop virtuoso innescato dalla Mixology Academy. Che ha due sedi, una a Milano e una a Roma, un’offerta formativa dai corsi base al global e addirittura un ufficio di placement dedicato, vero tramite tra la scuola e il mondo dell’hotellerie e dell’hospitality più remunerativo.
Giulia Caffiero e un drink da lei ideato.
La mixology va al femminile.
Sono poco visibili ma in crescita, e non a caso preparatissime, le donne che scelgono la mixology e diventano bar ladies. Giovani consapevoli che non tutto il mondo della ristorazione ha fame di chef. Queste ragazze mettono in gioco skill manuali, scientifiche e comunicativa notevoli, come Giulia Caffiero, 30 anni, manager al tristellato Geranium di Copenaghen, specializzata in estratti e succhi naturali e juice pairing.
E alle sessioni di mixology dell’ultimo Identità Golose, quante ragazze già attive nella professione!
La mixology va verso la mixOILogy.
MixOILogy. Avete letto bene. È un mio neologismo e designa la mixology all’olio extravergine per creare cocktail e mocktail (drink analcolici). Giocando con i tratti principali dell’olio – fruttato, amaro e piccante – e con le loro intensità, nebulizzando l’olio, ghiacciandolo, modificandone la consistenza, ecco nuovi mix e riletture interessanti dei classici. Uno dei più frequentati, ovvio, il Martini, la sua oliva. Come nel Martini Dry di Dante Testagrossa della Locanda del Santo Bevitore di Novi Ligure, all’infusione di Laudemio.
La mixology va al design.
Drink in bicchieri in edizione limitata disegnati storti, tagliati asimmetrici, soffiati e quasi accartocciati. Bicchieri fatti a mano ad hoc per certi cocktail e non per altri, conformati in modo da amplificare e canalizzare al naso e al palato la bevanda. Questa voluttuosa commistione di mixology e design è un tratto di Emanuele Balestra, superstar della mixology di base al Majestic di Cannes. Ma anche i bicchieri one-of-a-kind del VE.RO di Venezia non scherzano.
La mixology va nei cocktail portatili e personalizzabili.
Chi ha un occhio attento, avrà già notato negli scaffali premium della GDO come nelle cortesie per gli ospiti di qualche hotel, la proposta di cocktail in mini-kit – componibili, completabili, comunque portatili. Un esempio sono le cocktail box di NIO di Patrick Pistolesi, con il cocktail in una bustina piatta da aprire pizzicando. Ghiaccio nel bicchiere, versare, gustare. Che cosa ci dice questa evoluzione della mixology? Che c’è spazio per generare nuovi riti liquidi.
La mixology va alla responsabilità.
Non è una contraddizione essere paladini del bere miscelato e al tempo stesso incoraggiare un bere mindful, cioè consapevole, misurato, responsabile. Perché solo così cresce l’attenzione alla qualità creativa dei cocktail e alla loro presenza in infiniti menu gastronomici e percorsi, nuovi riti del bere. Ben vengano allora parole-messaggio e hashtag come #beviresponsabilmente, #drinkresponsibly e l’ancora più bello e conciso #drinkaware.
Questa mixology che punta alla formazione, alla parità professionale di genere, alla valorizzazione di un ingrediente come l’olio EVO, alla creazione di nuovi packaging e alla diffusione di messaggi realistici e costruttivi, ci piace.
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ph. Mixology Academy, Instagam @giulicaffiero, nio-cocktails.com, iPhone di Daniela
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Source: Hospitality News